Tu sei qui: Storia e StorieDa Guzzanti a Sorrentino: l'attore Giovanni Esposito si racconta nella "sua" Ravello
Inserito da (Redazione), mercoledì 29 agosto 2018 17:34:37
di Miriam Bella
«Da grande avrei voluto fare il professore»: Giovanni Esposito, classe 1970, è fra quei pochi che da bambino non sognavano di diventare un giorno calciatore, astronauta oppure attore. Tant'è che fu il padre a notarne il talento, grazie a degli spettacolini che Giovanni metteva su in parrocchia per arrotondare la paghetta di ragazzo, e iscriverlo ai provini per l'ammissione all'accademia d'arte drammatica del Teatro Bellini di Napoli, sua città natale.
È dunque al suo papà che dovremmo dire grazie se, dopo che a quella stessa accademia lui si diplomò, dal 1997 ad oggi Esposito è fra i volti più noti della tv e del cinema italiani. Attore, comico e caratterista, ha esordito sul piccolo schermo con i fratelli Guzzanti, Caterina, Sabina e Corrado, e da lì è arrivato ai giorni nostri attraverso due decenni in cui ha potuto studiare dall'interno, quale Charles Darwin dei mass media, l'evoluzione della specie televisiva, nonché le dinamiche del rapporto attore-spettatore.
Giovanni, fai televisione da ventuno anni: appare dunque evidente che tu sia invecchiato, ma puoi dirci dal tuo punto di vista come e quanto è cambiato l'ambiente televisivo?
Parecchio, è cambiato parecchio e certamente gli anni li porta assai peggio di me.
Negli ultimi venti la televisione è regredita e insieme il livello di attenzione del pubblico si è abbassato vertiginosamente, per cui ormai programmi tipo il Pippo Chennedy Show sarebbero impensabili. Il Pippo Chennedy era una satira politica e di costume talmente elevata che, al giorno d'oggi, la maggior parte dei telespettatori cambierebbe canale dopo dieci minuti, nonostante per l'epoca in cui fu messa in onda (1997 ndr) fosse già mainstream. Andando avanti negli anni il gusto del pubblico si è abbassato per volere di chi gestisce i mezzi di comunicazione e, per quanto mi riguarda, i social network hanno inflitto il colpo finale alla televisione intelligente, come pure a un certo tipo di cinema e di teatro, diventati ormai mezzi di distrazione di massa.
Secondo te, però, programmi come il Pippo Chennedy Show, visto che ormai lo abbiamo tirato in ballo, potrebbero tornare?Mi spiego: il modo di fare spettacolo può essere ciclico come la moda, che ogni tot ripropone dei target temporaneamente accantonati, o è in una evoluzione che non prevede "ripetizioni"?
Mah, io credo possano esserci dei ritorni prima o poi, certo è che al momento non appare nulla all'orizzonte che lasci ben sperare.
Quello che vedo adesso è gente che è abituata a stare sugli smartphone o sui tablet ventiquattrore al giorno, dalle otto alle undici in qualità di ingegnere civile, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio come politologa aspirante presidente del consiglio, dopodiché tutti si diventa allenatori calcistici o attori. Tutti ci sentiamo in grado e in dovere di fare tutto e su tutto esprimere opinioni, manca il tempo da dedicare ad una trasmissione televisiva che sia tale. Ancora reggono le fiction, ma non so per quanto, perché il mondo social assorbe tanto, quasi tutto e, siccome un poco anch'io li frequento, mi sembra sia diventato davvero l'unico sfogo delle persone.
Come puoi pensare, con questi presupposti, che ci sia un pubblico disposto a seguire per due ore una trasmissione che abbia pure dei contenuti? Un pubblico ormai abituato a guardare su internet video di massimo due minuti; Instagram, per esempio, impone ai video una lunghezza massima di un minuto, perché diversamente l'utente medio, che poi è quello che compone la maggioranza, non li vedrebbe.
Dei format televisivi del passato, cui hai preso parte o meno, quale ti manca di più? Quale vorresti rivedere?
Fra quelli a cui ho lavorato, senza dubbio "Mai dire...", con la Gialappa's Band: mi divertiva da morire, sia guardarlo che realizzarlo. C'era un'atmosfera meravigliosa. I tuoi pezzi li scrivevi tu, dopo li confrontavi con colleghi e autori ed era magnifico dal punto di vista umano e professionale.
Poi, andando ad un passato ancora più remoto, mi mancano i programmi come "Studio Uno", quelli con i grandi attori, con De Sica insieme a Mina. Anche se a quelli non ho preso parte, guardarli mi suscita una grande nostalgia, un rammarico quasi, perché penso che a cose del genere non torneremo più, intendo ad un prodotto di spettacolo di quella qualità.
L'ultimo baluardo, l'unico posto, dove io per primo mi rifugio, in cui ancora è possibile preservarla la qualità è il teatro. Ovviamente anche lì, in cartellone c'è bisogno del nome famoso che faccia da richiamo, ma da solo non basta; sul palco poi si vede la sostanza.
Perché il pubblico a teatro può venire a vedersene uno di spettacolo mediocre, due, poi però non ci viene più. Il teatro non fa sconti. (Per fortuna, aggiungo io).
Fra tutti quelli con cui hai lavorato, c'è un sodalizio artistico che porti nel cuore?
Naturalmente i colleghi con cui ho lavorato, chi per un motivo, chi per un altro, sono tutti nel mio cuore.
Ritengo, però, che artisticamente Corrado Guzzanti sia un genio inarrivabile. Ti basti sapere che quello che si vedeva in televisione dei programmi in cui abbiamo collaborato era solo la punta dell'iceberg. Corrado buttava letteralmente dei pezzi che oggi sarebbero capolavori, ma che per lui non erano abbastanza, perché semplicemente non rispettavano il suo standard.
Poi, ci sono Aldo, Giovanni e Giacomo, Fabio De Luigi, Stefano Accorsi e Pier Francesco Favino con cui siamo amici al di là della stima professionale.
Tu, dunque per mestiere fai ridere gli altri e questo ormai è chiaro. Si dice che ci fa questo per lavoro sia poi tendenzialmente malinconico. Ti ritrovi in questa definizione?
Non sono affatto un malinconico, mi piace divertirmi e divertire, da solo e in compagnia. A volte, spesso, sono romantico, ma mai malinconico. Certo, magari ad alcuni potrei dare l'impressione opposta, non lo escludo, ma posso garantire che per me non è così.
Un comico a cui piace divertirsi, sì, ma che cosa ti fa ridere?
A me fanno ridere le cose costruite con grande intelligenza: parlavo prima di Guzzanti (Corrado ndr), che per me in questo campo è il massimo. Durante il Pippo Chennedy facevamo lo sketch di nonno Tommasino - non so in quanti lo ricorderanno - a cui lui faceva raccontare della guerra sponsorizzando cose, tipo le patatine in busta. Ecco, la comicità costruita in quel modo, quella mi fa ridere. Di contro, anche il nonsense, eh. Diciamo che sono molto disponibile alla risata. Rido anche di cose talmente banali, per cui alcuni mi giudicano per il fatto che io stia ridendo.
In pratica, Giovanni, far ridere, farlo come si deve perlomeno, non è un lavoro in cui si deve, o ci si deve, improvvisare.
Assolutamente. L'improvvisazione può essere utile per dare una sfumatura all'interno di un recinto già ben costruito; serve a colorare una staccionata piantata a terra in maniera perfetta.
Prendi le sitcom americane, loro hanno professionisti che le scrivono seguendo delle tecniche precise, secondo cui alternano le battute comiche in base al numero delle altre, quasi fossero sonetti messi giù in base a una metrica precisa, noi no. Noi in Italia tendiamo a scegliere l'accezione negativa della parola "improvvisare".
Fra i premi Oscar da cui sei stato diretto ci sono Florian Henckel Von Donnersmarck e Woody Allen, ma vorrei chiederti nello specifico del tuo e nostro conterraneo Paolo Sorrentino, con cui hai girato "Loro", la sua ultima pellicola, del tuo rapporto con lui e di come è stato lavorare assieme. Ti va di parlarcene?
Io e Paolo Sorrentino ci conosciamo bene e da molto tempo, da prima addirittura che dirigesse il suo primo lavoro.
Ebbi un ruolo nel primo film che scrisse e recitai, nel 1998, nel corto che fu il suo esordio da regista: "L'amore non ha confini".
Perciò, quando mi sono trovato sul set di "Loro", la sua serietà e la sua dedizione mi erano già note. Ma una delle cose più sconvolgenti è stata vedere tanta gente, la sua troupe, lo stesso Toni Servillo, lavorare insieme in un'unica direzione, avendo lui come timoniere indiscusso.
La prima scena (di "Loro" ndr) che ho girato è stata in un ambiente con quattrocento comparse, quattrocento persone in un silenzio assoluto, irreale. Quando ho riportato la mia impressione a Toni (Servillo ndr), questi non ha fatto che confermarmi che con lui è sempre così. Perché Paolo (Sorrentino ndr) basta che passi e guardi e tutta la sua squadra lavora senza nemmeno il bisogno di comunicare verbalmente. E poi lui ha il punto di vista dello scrittore prima che del regista, un'altra persona non riuscirebbe nemmeno a pensarli i suoi film. Prendi "Il Divo", che è fra i miei preferiti in assoluto, come fai a pensarlo un film così?
Passando adesso a cose meno cinematografiche, ma restando comunque in Campania, sappiamo che sei un frequentatore assiduo della Costiera Amalfitana e di Ravello in particolare. Addirittura, anche in inverno. Cosa ti lega tanto alla nostra terra?
Ero stato qui da ragazzo, poi ci sono ritornato grazie a mia moglie, convinta che me ne sarei innamorato definitivamente e, difatti, dopo qualche giorno dal mio arrivo ero già perfettamente integrato nell'ecosistema locale.
Quello che adoro di Ravello sono le due anime che riesce a far convivere, quella chic e quella paesana. Per dirti, domani ho una grigliata a Scala, innaffiata da vino paesano, e non vedo l'ora.
A questo punto sarebbe ora di darti la cittadinanza onoraria, non credi?
Per carità, non ne ho bisogno, io mi sento uno del posto.
Niente cittadinanza per te, allora. Tornando adesso alla comicità, a quella napoletana, di cui tu sei un esponente, negli ultimi anni si è affermata molto anche la pugliese, grazie al lavoro di Checco Zalone. Cosa pensi di lui?
Io apprezzo moltissimo Checco Zalone, credo che lui sia fantastico. Poi, lo so, purtroppo io torno sempre sul discorso social, ma penso che lui abbia anche trovato la chiave per usarli al meglio.
Checco Zalone compare in rete prevalentemente in occasione di uno spettacolo o di una prossima uscita al cinema e fa bene.
Questi personaggi onnipresenti alla lunga non è che stancano, ma se vedi costantemente, quotidianamente le loro videoclip a portata di click, perché mai dovresti andare a pagare un biglietto? Alla fine, coloro che sono arrivati al successo grazie ai social network rischiano di dimostrarsi un flop al botteghino, nonostante abbiano talento e magari abbiano anche creato un prodotto di qualità. Checco Zalone, invece, non è mai caduto nel tranello: tutti aspettano il suo film per andare a vederlo e lui, risolti gli obblighi promozionali, torna dalla sua famiglia a fare la sua vita, come è giusto che sia.
Giovanni, giuro che questa è davvero l'ultima domanda: un tuo ricordo di Massimo Troisi.
Sono talmente asservito a lui e tifoso di Massimo Troisi, capace di vedermi i film duecento volte che non potrei parlarne senza trasporto. C'è quel seme di malinconia in lui (e sì, in lui c'è), malinconia sana, che ti porta in empatia. Una malinconia ovattata in cui ti senti protetto, in cui arriva all'improvviso la sferzata di ironia. Massimo Troisi ha portato al cinema l'umanità, come vedere da un altro punto di vista la commedia all'italiana di Sordi e De Sica: una specie di evoluzione naturale.
Anche il percorso che ha fatto coi suoi film è sempre stato in crescita, sia mentale che emotiva. Tutt'ora io mi vado a cercare le interviste, anche in quelle era illuminante, diceva cose di un'intelligenza rara, che faccio fatica a trovare altrove.
Eppure non sono pochi quelli che hanno cercato e cercano di imitarlo.
Il problema proprio è quello. È che ciascuno, in generale, ha bisogno di trovare la propria strada, imitare quella di un altro non porta a nulla, almeno a nulla di buono.
Poi, oh, qui stiamo parlando di Massimo Troisi, insomma, nessuno potrebbe reggere il confronto.
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